Created on 2017-10-23 03:47
Published on 2017-10-28 07:52
Published on October 28, 2017 − Updated on October 28, 2017
Ci sono quattro modi per allocare (o distribuire) una risorsa finita:
Quella che definiamo allocazione per merito, in realtà, è un'allocazione secondo un determinato criterio, o insieme di criteri, o un processo determinato da un insieme di criteri, ovvero una metrica. Allora prima di proseguire bisogna chiarire un punto fondamentale:
Il merito non esiste in valore assoluto ma è il risultato della metrica, ed essa è relativa.
Ci sono molti esempi che si possono fare. Ad esempio possiamo decidere che le persone più alte debbano essere premiate perché sono cresciute di più. Perché non le più pesanti? Oppure quelle che saltano più in alto o quelle che saltano più in lungo?
Le metriche non sono solo relative ma anche soggette a distorsioni dovute a pregiudizi cognitivi (false convinzioni). L'effetto pigmalione (o effetto Rosenthal) è un classico esempio in cui la previsione (outlook) condiziona il risultato (outcoming) e generalmente, più o meno, è sempre così. Perché, prima ancora del risultato, la nostra opinione e la nostra percezione (bias) condizionano i processi a monte che poi vanno a costruire il risultato.
L'outlook è uno dei fattori determinanti dell'outcoming: la previsione anticipa il risultato.
Il problema ENORME è quello di trovare la metrica GIUSTA. Perché quando andiamo a porci la domanda di cosa sia giusto si apre un dibattito infinito in cui ognuno ha le sue idee, i suoi interessi e più in generale i suoi pregiudizi. Piuttosto, è più facile chiedersi cosa vogliamo ottenere e poi chiedersi cosa sia utile o meglio fare per CONSOLIDARE quell'obbiettivo.
Tutti parlano di come e di quali obbiettivi raggiungere ma prima di tutto andrebbe cambiato il verbo: gli obbiettivi si consolidano.
Il verbo CONSOLIDARE è fondamentale perché, già di per se stesso, implica di considerare obbiettivi sostenibili ovvero che possano essere consolidati. Tutti gli altri sono obbiettivi di transizione, passi intermedi, magari indispensabili ma sui quali non vale la pena di creare una metrica perché le metriche che privilegiano obbiettivi instabili rendono il processo di raggiungimento fragile (nel senso della teoria dei sistemi).
Il concetto esposto sopra ha però dei limiti. Ad esempio, c'è un caso classico di una coppia {metrica, obbiettivo} intrinsecamente non stabile:
L'uomo che compete per essere eletto capo ragiona da leader, al momento della nomina, inizia a ragionare da boss.
Questo è un esempio di sistema instabile perché il giorno della vittoria s'impone una metrica di ragionamento diversa dalla precedente. Perché dal giorno dell'elezione avrà come obbiettivo il consolidamento della posizione ma questa nuova attitudine è già antagonista per la costruzione del consenso alle prossime elezioni.
Questo tipo di contraddizioni sono estremamente comuni e anche insuperabili entro certi limiti, l'unica cosa che si può fare è di smorzarle. Invece, il più delle volte si tende a esasperarle (cfr. la strage degli innocenti di Erode il grande, Matteo 2,1-16).
Perciò una metrica non deve essere necessariamente ragionevole perché deve risolvere un problema che non ha una soluzione assolutamente stabile ma in generale di equilibrio dinamico semi-stabile, quindi deve compensare una contraddizione.
La metrica serve per stabilire un criterio che ci permetta di superare una contraddizione perciò non è necessario che appaia ragionevole, è l'obbiettivo che deve essere ragionevole.
La logica umana si basa su diversi pregiudizi cognitivi, fra i quali, quello per il quale occorra fare un'azione ragionevole per ottenere un risultato ragionevole. Nella teoria dei sistemi questo è vero se il sistema che elabora gli ingressi e li trasforma in risultati è semplicemente lineare. Perciò liberiamoci pure dal fardello mentale che la metrica ci debbia piacere e/o sembrare ragionevole, di per se stessa. Anche perché ciò che troviamo assurdo oggi, potremmo trovarlo del tutto normale domani e viceversa.
Quello di allocare risorse a caso è un caso interessante. Perché, a dispetto di tutto, è meno banale di quanto si pensi. Il caso non è poi così a caso come si è soliti pensare.
Siamo quattro amici al bar che si vogliono spartire una torta di pasticceria e decidiamo di usare una metrica basata sul caso. Ci sono fondamentalmente due approcci: all-in e slice-in. Nel primo caso (all-in) uno solo si becca tutta la torta e gli altri rimangono a bocca asciutta. Nel secondo caso (slice-in), si tagliano le fette di torta e si tira a sorte per ognuna di esse. Se le fette di torta sono sottili, molto sottili, infinitamente sottili allora il caso onesto (cioè se la sorgente di casualità ha le caratteristiche tipiche del rumore bianco e nessuno bara) disporrà che ognuno dei quattro riceva ESATTAMENTE la stessa quantità di torta. Interessante, no? Ma non è finita! C'è il costo del taglio da considerare.
Nel tagliare una fetta di torta, un po' di torta va perduta. Perciò, più sono sottili le fette di torta più è onesta la divisione ma minore è il rendimento cioè il rapporto fra il peso iniziale della torta e la somma dei pesi delle quattro fette di torta.
Il costo di un sistema di ripartizione perfettamente equo è talmente elevato che è del tutto inutile. Per contro, un sistema di ripartizione perfettamente efficiente (all-in) è talmente ingiusto che tutti meno uno si ribellerebbero. Perciò, desideriamo un sistema di ripartizione efficace: abbastanza efficiente e abbastanza equo affinché non generi conflitti e rimanga abbastanza torta per tutti.
Siano quattro commensali che a giro si dividono una torta per fette con taglio casuale. Ogni fetta avrà dimensione proporzionale all'angolo piano sotteso fra il taglio e quello precedente. In termini numerici si può descrivere così, per quattro commensali:
La media attesa è minore di 90° a causa delle perdite nel taglio della torta che incide per un 1° х 4 tagli ed infatti la somma fa 356° perché il quarto taglio (giro) è calcolato come il terzo risultato meno 359°. La torta completa, in origine, era un cerchio di 360°.
C'è un altro modo di usare il caso per dividere una torta.
La torta ruota e a caso si ferma affinché un coltello meccanizzato esegue un taglio. Si fanno tanti tagli quanti quelli necessari per ottenere quattro fette, quindi il girello si ferma e ognuno prende la fetta di torta che ha davanti a sé. La dimensione della fetta sarà casuale fra 0° e 356° gradi, quattro gradi di torta andranno comunque persi nei quattro tagli. È la stessa cosa descritta sopra, il taglio viene effettuato con un procedimento deus ex machina che solleva ognuno dei commensali dal ruolo di tagliatore della torta.
Ora, rendiamo il gioco più interessante.
I commensali mangiano la torta tutti i giorni ma non sono costretti a mangiare tutta la fetta della torta, quella in eccesso rispetto alle esigenze giornaliere possono accantonarla per il giorno dopo e quella in difetto possono farsela prestare. Poiché la torta è deperibile e non dura più di tre giorni, il patto di solidarietà permette a tutti loro di avere sempre abbastanza torta, tutti i giorni.
Rendiamo il gioco ancora più interessante.
La torta non è deperibile. Dopo un periodo di transizione in cui il patto di solidarietà permette a tutti di avere abbastanza torta, le scorte di torta cominciano a crescere per tutti, ugualmente. L'abbondanza di torta di questo tavolo attira altri commensali uno per ogni giorno. Finché il numero di commensali non raggiunge il limite per cui la fetta di torta media non è più sufficiente per tutti. A quel punto coloro che hanno iniziato il gioco prima avranno un surplus di torta che possono cedere o scambiare con qualcosa che però non sia torta, perché mediamente la torta non è abbastanza per tutti quindi le scorte complessive andranno diminuendo. Prima ancora che questo accada, avverrà un conflitto.
Non esiste un'economia della torta. Perché se la torta è abbondante non è scarsa e l'economia si occupa della gestione delle risorse scarse. Se la torta è scarsa deve esserci qualcosa che non è torta, che possa essere negoziata con la torta, affinché si possa produrre o ottenere altra torta. Ma la torta non viene prodotta, viene distribuita e basta.
L'allocazione in parti uguali e quella a buffet sono casi limite di quelle che abbiamo visto sopra. Al buffet, il primo che arriva si serve. Se arrivano N commensali insieme possono accordarsi per usare uno degli altri metodi per spartirsi la torta oppure andare in conflitto fra di loro.
Un quesito interessante, tipico della teoria dei giochi è stato sollevato nei commenti a questo articolo che parafrasando suona così:
Ho due figli, sceglie la fetta quello che non taglia la torta. Ma se avessi tre figli?
I giochi che prevedono due antagonisti sono più semplici da comprendere e quindi da gestire, in generale, si dividono in due categorie una tantum:
oppure a molteplici ripetizioni:
Il secondo caso prevede un conflitto su chi debba essere il primo a cominciare la serie (memento mori: dell'oggi vi è certezza, del domani si vedrà) ma questo conflitto può essere sciolto con un testa o croce. Qualora vi sia la possibilità, o sufficiente incertezza riguardo al futuro, il caso a molteplici ripetizioni tende a essere gestito come il caso una tantum con l'accezione che gli attori coinvolti sono consapevoli che potranno, eventualmente, compensare le variazioni giornaliere.
Un compleanno però capita una volta soltanto e i pargoli sono in numero superiore a due. Ci sono delle strategie di gioco 1:N che sfruttano l'egoismo ovvero sono resilienti all'egoismo quindi sono a fair play indotto, che si basano sulla regola d'oro di reciprocità emergente dal fatto che il gioco sia strutturato per permettere ai giocatori di immedesimarsi negli altri concorrenti. Queste regole tendono a convergere al caso 1:1, ad esempio, per quattro fratelli {a, b, c, d}:
A questo punto, il tagliatore sa che l'unico modo di avere la fetta di torta più grossa possibile, quindi per massimizzare il suo utile, dovrà tagliarle tutte esattamente uguali. Così facendo anche la scelta degli altri tre sarà ininfluente, perciò priva di conflitto.
Le strategie resilienti all'egoismo − purtroppo − non lo sono altrettanto rispetto alla stupidità (cfr. la banalità del male di Hannah Arendt e le leggi fondamentali sulla stupidità umana di Carlo M. Cipolla) che spesso è il risultato della paura.
Comunque sia, per questo specifico tratto della natura umana non esiste strategia che tenga! 😏
Il problema fondamentale, scherzi a parte, è che diamo per scontato che tutti i partecipanti scelgano in modo informato e consapevole per massimizzare il loro personale interesse che poi è il mito del virtuoso egoista razionale di Adam Smith.
La realtà è che gli esseri umani, in generale, non sono né virtuosi ma nemmeno necessariamente egoisti e sopratutto non sono razionali. Peggio ancora, stabilite delle regole che impongano il fair play come "desidero per te, quello che vorrei per me" è sufficiente che dalla ruota della fortuna esca un tagliatore di torta abbastanza sadico da accettare di essere masochista per mandare a pallino tutto, o banalmente stupido.
Perciò, sia il principio di reciprocità, sia quello di attore intelligente sono mere ipotesi teorica perché la realtà ci presenta, più sovente di quanto immaginiamo, dei cigni neri ma sopratutto tanti, molti, piccioni (cfr. giocare a scacchi con un piccione).
Non esiste una teoria della risoluzione dei conflitti. Esiste una teoria della gestione dei conflitti e delle situazioni di crisi. Ad esempio, la così detta legge del più forte non è una gestione dei conflitti in quanto è esattamente l'assenza di una qualsiasi gestione. Anche perché la semantica della locazione "più forte" implica una metrica. Perciò, essa è solo l'esegesi tautologica del conflitto stesso: chi vince è il più forte, ma questo si sa solo a posteriori. Detto in altre parole, la legge del più forte giustifica il conflitto stesso nella misura in cui più di un antagonista ha motivo di ritenere di essere il più forte.
La differenza fra un conflitto e una competizione sportiva è che le nella competizione sportiva la metrica, cioè le regole di gara, sono definite a priori e vengono considerate vincolanti, pena la squalifica, dai partecipanti a cui sono note e accettate quale unico metro di giudizio. In pratica, una competizione sportiva è l'assegnazione di un premio, o di un insieme di premi, in funzione di un definito insieme di criteri di merito.
Il fatto che i partecipanti a una competizione conoscano le regole anzitempo non è un dettaglio trascurabile. Infatti nella teoria dei giochi assume un ruolo rilevante l'asimmetria informativa ovvero che una certa informazione rilevante per l'esito del gioco non sia disponibile a tutte le parti in causa.
Fra le varie informazioni ve ne possono essere alcune che sono da considerarsi parte della competizione perché forniscono un vantaggio competitivo (ad. es. il segreto industriale), altre che invece sono da considerarsi conoscibili (ad. es. il regolamento del CONI) e liberamente accessibili a chiunque. Se viene meno quest'ultimo aspetto la competizione non può dirsi sportiva in quanto manca di criterio alla base del fair play.
Lungi dall'essere una questione morale o etica, la mancanza di fair play nella competizione è un indicatore del grado di conflittualità, evidente o latente, che in assenza di correttivi esterni necessariamente degraderà nella legge della jungla.
La legge della jungla non è la legge del più forte. Rispetto a quest'ultima si distingue nella semantica meno esplicita ma non tautologica: in assenza di una gestione, il conflitto si autoregolerà con ogni mezzo esattamente come avverrebbe in un ambiente selvaggio lontano dalla civiltà.
L'asimmetria informativa non è l'unica componente che determina una deriva dell'equilibrio. Anche la manipolazione, l'inganno, etc. sono tutte azioni di conflittualità latente, latente perché non ancora evidente, che vanno ad avvantaggiare o a detrimento un attore rispetto agli altri ingiustamente dove per ingiustamente s'intende rispetto a quei criteri di merito che il gruppo pensa sia validi ma che nei fatti sono disattesi.
locuzione
Il fair play è la prima regola di qualsiasi competizione sportiva ed è l'elemento distintivo fra il conflitto e la competizione.
Last but not least, vale la pena sottolineare la differenza fra il fair play (gioco onesto) e il politically correct (comunicazione edulcorata) perché spesso, nella realtà, rischiamo di confonderli (l'apparenza inganna). Così per tenerlo a mente, ecco un'immagine.
Il motivo per il quale la civiltà tende a gestire i conflitti, ed eventualmente a trasformarli in competizione, è perché i conflitti tendono a degenerare ovvero a produrre un risultato negativo sia nel complesso, sia per il vincitore. Detto in altre parole un conflitto è una strategia lose-lose o lose-all-lose.
Questo sembra assurdo ma dipende dalla semplicistica riduzione della legge della jungla alla legge del più forte. L'errore è appunto nell'eccessiva semplificazione ovvero supporre che esista una metrica semplice che aprioristicamente risolva il conflitto quando invece è il conflitto che evolve e determina non il vincitore, ma il sopravvissuto!
(C) 2017, Roberto A. Foglietta, testo licenziato con Creative Common Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia (CC BY-NC-SA 3.0 IT)