L'importanza dell'agire

Created on 2016-11-06 11:08

Published on 2016-12-24 13:27

Published on December 24, 2016

Premessa

Per affrontare questa materia ho deciso di prendere a riferimento la mia personale esperienza. Sono consapevole che essa non sarà condivisa da tutti in parte o in toto.

Non penso che la mia esperienza personale sia essenziale ma da qualche parte era pur necessario partire e farlo in maniera generica non mi pareva adeguato.

L'azione

Se vogliamo definire confusione o incertezza quanto precede l'azione, allora diciamolo, ma è una descrizione che ci condurrebbe a ridurre la nostra comprensione del processo decisionale. Sarebbe una semplificazione, una scusa per non andare a fondo alla cosa.

Infatti la considerazione di diverse alternative non è confusione ma esplorazione e l'equilibrio fra anche due opposte opportunità non è indecisione ma valutazione.

Perciò le decisioni si confermano con l'azione. Più è turbolento l'ambiente più veloce sarà l'azione e la successiva, cioè la frequenza delle azioni.

Eteroinfluenza

Dobbiamo però distinguere fra l'azione che è nostra propria, quella che è soggetta alle circostanze e ancora di più quella che è soggetta all'influenza delle altre persone.

L'influsso delle circostanze o degli altri non è necessariamente negativo ma può esserlo il modo in cui percepiamo e quindi viviamo una certa influenza ovvero come gestiamo la situazione e l'influenza degli altri.

Tralasciando situazioni limite nelle quali non vi è che un'unica via. In tutte quante le altre ve ne è sempre una moltitudine e saperle vedere, valutarle, costruirle e sentirle appropriate è parte della nostra capacità decisionale.

Se accettiamo di compiacere gli altri a nostro detrimento non saremo felici e in definitiva nemmeno gli altri perché anche quando gli altri ci offrono espressamente la possibilità di ritornare sui nostri passi, in realtà, sperano che non lo faremo. Quindi se non siamo convinti tanto vale deluderli una volta soltanto che per altro è anche più accettabile come è accettabile il fatto che sappiamo avere rispetto di noi stessi.

Per quanto possa sembrare strano, saper dire di NO è più difficile di quanto si creda.

Gestire la complessità

Poi ci sono delle situazioni in cui non possiamo sapere e nemmeno pretendere di sapere quali siano i progetti degli altri. In questi casi possiamo decidere di lasciarli fare anche per noi, non vi è nulla di sbagliato nel delegare o nel non delegare, ma semplicemente lasciar fare.

Resta inteso che se vogliamo mantenere il controllo sugli aspetti fondamentali della nostra vita o della nostra impresa, dovremo saper intraprendere quelle azioni che combinate con l'azione degli altri la rafforzino, se esse andranno nella direzione che noi desideriamo, o l'annullino, se esse andranno in direzione opposta.

In quest'ultimo caso vi sarà una doppia delusione ma nella misura in cui gli altri non ci hanno comunicato interamente o fedelmente le loro intenzioni la loro delusione sarà un rischio che avranno valutato rispetto a quello di informarci.

D'altro canto la nostra delusione sarà stata preventivata nella misura che non saremo stati sufficientemente chiari nel dichiarare le nostre intenzioni oppure, analogamente, un rischio calcolato rispetto a quello di dichiarale.

Lo scopo dell'azione

Se l'azione è il punto cardine e conclusivo del processo decisionale, la creazione delle condizioni opportune è quello cardine per il successo delle nostre azioni. Ma questa è un'altra storia. Anche se non è infrequente che fra una decisione e la sua effettiva attuazione ci sia un periodo di preparazione delle condizioni al contorno.

Se paragoniamo un'azione a un viaggio allora comprendiamo l'utilità della preparazione.

La percezione esterna

Questo periodo che intercorre fra la nostra decisione e la nostra azione può essere percepito come incertezza o come confusione all'esterno. Questo può essere un problema nella misura per la quale riduce la percezione che gli altri hanno della nostra convinzione di essere in carica di noi stessi e di riflesso invitarli ad influenzarci.

Però se dovessimo continuamente curarci della percezione degli altri saremmo alla disperata e continua ricerca del consenso e finiremmo per essere attori di poca azione.

La leadership e il Grande Fratello

Se potessimo misurare questo livello di complicazione (ricerca del consenso), che potremmo definire come tendenza a intendere l'esistenza sociale come una serie del Grande Fratello, con un parametro numerico simpaticamente denominato "GF-index", che ci indichi il rapporto fra il tempo passato a osservare noi stessi e il tempo passato a osservare gli altri, e ne facessimo una media sull'intera società avremmo il "GF-index" medio. Questo indice moltiplicato il numero di persone comprese nell'insieme campionario ci darà il numero di follower rispetto ai leader.

Questo esercizio potrebbe portarci a pensare, erroneamente, che in effetti la leadership sia rara, quando invece ad essere rara è l'autorevolezza perché essa deriva da un'esperienza non comune, l'esplorazione.

Leadership e priorità

Una società ad alto indice di GF-index sarà una società povera di leader autorevoli e dominata da tendenze di moda, spesso cangianti, quanto inutili. Perché cambiare anche una sola delle cose importante è un'immane sforzo invece cambiare gli aspetti del futile è una proprio una sciocchezza.

Inoltre le cose importanti sottendono a delle regole abbastanza precise e quindi il loro andamento è prevedibile mentre le mode sono frivole non avendo questi limiti imposti. Perciò le mode sono imprevedibili e richiedono una costante attenzione che invece andrebbe rivolta verso la gestione quotidiana delle cose importanti.

Perciò un leader non è una persona indifferente agli altri e al contesto ma una persona che ha ben chiare le priorità, le sue e quelle degli altri ma ha un'indice di GF basso in quanto ha un'efficiente gestione delle priorità.

Questa è la ragione principale per la quale la leadership autorevole si manifesta a prescindere da molti fattori che spesso sono associate ad altre leadership meno incisive.

L'autorevolezza e il rispetto

Raramente le persone accettano di buon grado di essere messe in discussione e percepiscono le critiche come un'attacco alla loro autorevolezza e sono estremamente sensibili a quelle comunicazioni o azioni che invadono il loro perimetro del rispetto.

I perimetri di rispetto e di autorevolezza sono analoghi al perimetro di spazio vitale e personale. Abbiamo dei perimetri fisici, delle distanze, sotto le quale possiamo intendere la vicinanza degli altri come un'invasione del nostro spazio fisico o addirittura come un'intimità non desiderata.

Psicologicamente, qualunque vicinanza non gradita alle NOSTRE idee, viola un perimetro analogo e viene percepita come una minaccia. Questo perché ci identifichiamo nelle NOSTRE idee perciò la nostra mente è succube di queste, quando invece le idee dovrebbero essere come le liane di una jungla prese saldamente e velocemente abbandonate, da una all'altra, verso una meta come farebbe Tarzan (e la citazione di questo personaggio non è casuale).

I perimetri immaginari

Anche rispetto ai perimetri di autorevolezza e rispetto dobbiamo fare molta attenzione perché dal loro equilibrio dipende la nostra capacità di influenzare o di essere influenzati. Le nostre capacità decisionale su noi stessi e di influenza sugli altri verrebbero completamente annullate se fossimo troppo sensibili o specificatamente sensibili a questo tipo di invasioni oppure all'opposto completamente impermeabili.

Un buon leader, infatti, sa anche ascoltare ma ascolta per comprendere.

La gestione delle sollecitazioni

Potremmo essere portati a criticare o addirittura a mandare a quel paese qualcuno o un certo gruppo di persone. Se lo facciamo ci liberiamo dal nostro sentimento ma ci guadagniamo la loro contrarietà o addirittura inimicizia. Se non lo facciamo saremo propensi a trasportare il nostro sentimento inespresso altrove e se tendiamo ad essere uomini d'azione non equilibrati dirigeremo la nostra azione contro gli antipatici che è comunque un'inutile spreco di energia perché non è detto che gli anticipatici siano in effetti inutili o indegni, semplicemente non sono riusciti a guadagnarsi la nostra simpatia in un certo momento e in determinate condizioni, spesso nemmeno per colpa loro giacché probabilmente erano impegnati nelle loro priorità e non nelle nostre.

Se reprimiamo il nostro sentimento e non lo trasformiamo in un'azione quest'azione diventerà una frustrazione, magari piccola, ma questo tipo di cose si va ad accumulare.

La gestione delle sollecitazioni è fondamentale per la nostra qualità di vita e la gestione delle provocazioni lo è ancora di più. L'individualità è una provocazione per gli altri, comunque la esprimiamo − se essa è sincera e non politica − è sempre anche una provocazione, almeno per una parte delle persone che non si riconoscono in noi o nella nostra opinione o nel modo in cui la comunichiamo. Piacere a tutti è impossibile.

La gestione delle provocazioni

Gli esempi in cui tutto va bene non servono a nessuno. Anche le favole dal lieto finale per trasmettere una morale o un messaggio hanno bisogno di epiloghi. Senza epiloghi e senza conflitti non vi è alcuna evoluzione. L'umanità è una specie sociale ma è una mera utopia che l'umanità possa essere una comunità simile a quelle delle api almeno non in un orizzonte temporale sufficientemente breve e a meno d'eventi di massa eccezionali.

Mi ricordo che un collega che fisicamente mi stava seguendo e parlavamo, a un certo punto, mi prese per il collo da dietro. Ritengo che il suo pensiero fosse del tipo "sei un'incredibile testa di cavolo e ti strozzerei" oppure "perché cavolo continui a parlarmi e darmi le spalle" (il corridoio era stretto). Non ho dato alcun seguito alla sua azione e lui si è immediatamente fermato. E' stato un evento altamente positivo per me e anche per lui, penso. Per lui perché ha preso coscienza della sua rabbia e probabilmente si è anche spaventato della sua reazione ma comunque ha saputo gestirla. Per me perché, a dispetto della risibile violazione del mio spazio vitale, mi è stato evidente che il livello di confidenza fosse tale da consentire a quella persona un simile contatto e, pur non ignorandolo, non ho mai dato un peso negativo a quell'evento, anzi.

Se invece di fare riunioni fiume per l'autoaffermazione del se individuale e per l'equilibrio di gruppo si andasse a prendersi a colpi di cuscino come bambini di 6 anni nel retro dell'ufficio allora le riunioni sarebbero molto più rapide, efficaci e lo spirito di gruppo sarebbe molto più alto e solidale. Prendersi a mazzate è incivile e gestire le diatribe con sottili formalismi è uno spreco di tempo mentre la battaglia di cuscini è divertente e molto più efficace. A volte pesano più le parole delle mazzate, perciò per quanto stupidi possa farci sentire, il piumino d'oca è una soluzione migliore.

Poi sentirsi stupidi fa bene, si smette prima. Avete presente i flash mob? Ecco!

La gestione delle violazioni sociali

Le violazioni della nostra sfera individuale sono e rimangono soggettive tranne casi eclatanti e piuttosto rari nella società odierna, a prescindere dal bombardamento mediatico, la maggior parte degli indicatori statistici concorda sul un calo sensibile e progressivo dell'aggressività generalizzata. Le violazioni delle norme sociali sono un altro aspetto nel quale ci siamo coinvolti nella misura in cui ci identifichiamo con la norma sociale o la reputiamo degna di una difesa diretta o indiretta. Salvo casi eclatanti la sfera sociale e quella individuale è molto affine. Infatti è una comune norma sociale rivolgersi agli altri in funzione di un dato ruolo o di un dato contesto comunque con cortesia. Ma la cortesia è anche un requisito di rispetto che generalmente pretendiamo come individui. Riporto qui sotto un esempio tratto da un altro articolo [link Controllo sociale e distribuzione del Q.I.]

Possiamo rivolgerci a un cameriere con modo gentile o con un ordine diretto "dammi da bere" porgendogli un bicchiere. In questa seconda ipotesi egli può decidere di ignorarci (punizione indiretta) oppure di versarci del liquido anche sulla mano (punizione diretta). A questo punto potremmo reagire aggressivamente e iniziare un circolo vizioso e negativo di reciproca conflittualità. Oppure possiamo ignorare il fatto e ringraziare come se nulla fosse accaduto. L'indifferenza alla sua reazione porterà il cameriere a farci notare con cortesia il suo errore e a quel punto se minimizziamo il fatto con altrettanta cortesia "non c'è problema" ci offrirà un tovagliolo. Ringraziandolo vedremo in questa persona un conflitto interiore fra la sensazione negativa per il condizionamento che è stato disatteso (nulla è andato come previsto) e la positiva sensazione di essere liberato sia dal giudizio (il fatto non costituisce un giudizio della persona, ne per lui ne per l'altra persona) sia dagli avvenimenti (il fatto non costituisce intenzione, di per se stesso). Un incidente ben gestito può portare a una maggiore complicità e mutua solidarietà fra due individui, più di quanto non possa un bella svolazzata di stile e nobile cortesia che comunque s'apprezza sempre (ma anche c'è chi la invidia - la pienezza di spirito - e quindi nulla è davvero un valore assoluto!).

Dinamiche di gruppo

Un'altra violazione sociale è quella territoriale rispetto a gruppi di adolescenti. Mi ricordo che durante un lungo campeggio estivo il gruppo antagonista aveva violato il nostro territorio e per tanto si era deciso una spedizione punitiva a gavettoni d'acqua gelata. Poiché certe dinamiche sono alquanto prevedibili trovammo l'altro gruppo preparato con mezzi equivalenti.

Nel fronteggiarsi per studiare le relative intenzioni e capacità offensive al momento che la decisione di muoversi era ormai presa, io ero nell'avanguardia dei tiratori, in testa ad essi, per la precisione. Improvvisamente la situazione mutò e fui quasi l'unico a essere bersagliato da entrambi i gruppi, una sorpresa piuttosto gelata a cui risposi con un sonora risata e null'altro.

La mia posizione passò da consigliere di un gruppo a leader di entrambi. Evidentemente quell'evento aveva dato alle persone di entrambi i gruppi un'occasione individuale per esprimere alcune tensioni interiori a livello individuale e casualmente si è verificato un concordanza d'intenti quindi si è stabilita una solidarietà casuale ma istintiva fra due gruppi separati. Da parte del gruppo antagonista è presumibile che abbiamo reagito bersagliando quello che istintivamente avevano identificato come il membro alfa e in qualche misura per diverse ragioni avevano fatto lo stesso quelli del mio gruppo.

Con le dovute proporzioni, la medesima cosa accade per le preghiere e le bestemmie che gli uomini rivolgono alle autorità celesti. La richiesta di essere ascoltati e la rabbia per non esserlo stato abbastanza (non si è mai abbastanza ascoltati) sono due facce della stessa medaglia. Difficilmente chiediamo l'attenzione di coloro che ci sono indifferenti, sarebbe patologico il contrario. Perciò il fatto che il leader effettivo sia anche il capro espiatorio incontra una lunga e consolidata tradizione non solo sociale.

Società e religione

La colpa e il peccato sono due dimensioni negative dello stesso aspetto, un'aspetto che opprime gli uomini e la società. Là dove la riabilitazione e il perdono sono l'alternativa positiva. Per educazione siamo portati a pensare che non possa esserci riabilitazione e perdono senza colpa o peccato e che la riabilitazione e il perdono siano concessioni che vengono dagli altri piuttosto che da noi stessi. Tutto questo è improntato a costituire una struttura sociale e religiosa piuttosto che una struttura di pensiero d'azione.

Per capire quanto questi elementi siano radicati nella cultura popolare basti pensare alla strofa "gli occhi del bambino, quelli, non li danno proprio indietro mai" (Eri Bellissima di Luciano Ligabue) che se combinata alla massima "Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli" (Matteo 18,3 ma anche Marco 10,13-16) appare uno scenario tragico per il quale ogni speranza di riabilitazione e perdono è perduta. D'altronde la serietà della materia non lascia dubbi e l'unica soluzione proponibile diventa una fiducia cieca che non è compatibile con la leadership.

Il gioco

Per fortuna esiste un'altra interpretazione che è quella del gioco. Il gioco ha il potere iconoclastico di interrompere il processo di iconificazione. Esso rappresenta il desiderio di essere ascoltati, la volontà di esprimersi liberamente e la contraddittorietà del conflitto senza i suoi effetti negativi. In termini religiosi è la preghiera senza aspettative e senza bestemmia, è la letizia Francescana che si può esprimere nella massima: "il peccato e la vergogna esistono solo negli occhi di chi giudica". Inoltre il gioco è agli antipodi del giudizio per mancanza di seriosità (il gioco è una cosa molto seria ma non seriosa) e per intrinseca riqualificazione del conflitto: giocare a scacchi senza un avversario degno della partita non ci procurerebbe nessuna emozione o soddisfazione.

Lo spirito del samurai

Nell'arte della guerra (testo cinese attribuito al generale Sun-Tzu) si afferma il concetto che conquistare il proprio nemico senza l'uso delle armi è l'unica vera vittoria, tutto il resto sono tentativi parzialmente falliti di vincere. Abbiamo conquistato il nostro antagonista molto prima che la nostra spada arrivi in sua prossimità oppure non lo abbiamo conquistato affatto. In quel testo però si affermano anche due elementi come fondamentali: la distruzione e l'inganno. Entrambi questi due sono gli aspetti negativi della conquista come seduzione (vittoria) e della fiducia tradita (l'inganno). In un'epoca il cui l'antagonista che perdeva cessava di vivere e con lui l'intero suo gruppo di appartenenza poteva avere senso ma oggi non più. Perciò nemmeno nell'arte della guerra troviamo un manuale adeguato ai tempi moderni e alla leadership moderna.

Se invece potessimo chiedere a un samurai giapponese il perché egli non si separa mai dalla sua spada probabilmente la risposta più Zen che potremmo ottenere è: perché la sua presenza e l'abilità nell'usarla gli garantiscono di non averne bisogno. Gli antichi romani avevo riassunto questo concetto con il motto "Si vis pacem, para bellum".

Osserviamo perciò che nell'arco della storia umana si è trovato diversi sistemi per la gestione dei conflitti ma generalmente per limitazione di risorse disponibili si è sempre stati propensi alla distruzione dell'antagonista e a rafforzare strutture oppressive. In un epoca di enorme disponibilità di mezzi l'alternativa del gioco come struttura alternativa o compensatrice delle organizzazioni sociali può essere seriamente presa in considerazione.

Conclusione

L'efficacia di gestire conflitti individuali, interiori e sociali, personali o di gruppo, dipende dalla nostra capacità di creare situazioni in cui le emozioni negative possono esprimersi con il minor danno e con la massima naturalezza possibile.

Il maggiore fallimento di una società civile si può evidenziare con la sua natura repressiva piuttosto che comprensiva, la sua tendenza a opprimere le persone piuttosto che a liberarle in modo appagante ma inoffensivo [¹] delle loro emotività negative.

Le organizzazioni aziendali al pari delle organizzazioni sociali o religiose posso esprimere il loro potenziale in termini repressivi oppure comprensivi. La repressione e la rigidità che ne deriva non permette ai conflitti di convertirsi in competizioni giocose e limita la creatività. Per quanto riguarda lo spirito di gruppo la differenza è grande quanto quella di un battaglione di soldati mandati all'eroico martirio rispetto a un gruppo di adolescenti che desiderino essere riconosciuti dai i loro coetanei attraverso una dimostrazione non aggressiva di capacità d'organizzazione e azione.

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(C) 2016, Roberto A. Foglietta, testo licenziato con Creative Common Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia (CC BY-NC-SA 3.0 IT).

Note

[¹] il problema non risiede nell'aggressività espressa in modo inoffensivo (gavettoni, cuscinate, etc) ma nella repressione e quindi nella sua inefficiente gestione. L'aggressività è una nostra componente umana del tutto naturale che ha buoni motivi e ben radicati per esistere ed essere sempre presente come la spada di un Samurai. Ciò non dimeno come un Samurai-Zen dobbiamo imparare a gestire la nostra aggressività, la rabbia e le altre emozioni negative portandole in un contesto dove esse siano accettabili e persino utili. Sia chiaro una battaglia di gavettoni può avere come epilogo una rissa. Se questo accade è perché alla base del confronto vi era da entrambe la parti la convinzione ferrea che vincere sia più importante di conquistare. Nel fare la differenza, alla base, ci sono sempre le nostre convinzioni di cui spesso non siamo consapevoli ne coscienti perché non riteniamo o non abbiamo mai considerato una diversa prospettiva per la quale potrebbe essere anche altrimenti. Il non avere alternative, in buona sostanza, è l'equivalente della disperazione.